Quali sono i diritti dell'impresa familiare per un convivente di fatto?

Gianriccardo Conte
2025-04-30 21:53:28
Numero di risposte: 4
La Corte Costituzionale ha deciso che sarà considerata impresa familiare quella in cui collabora il coniuge, il partecipante all’unione civile, i fratelli, i nipoti ma anche il convivente di fatto, al quale i diritti dell’impresa sono estesi.
Per la Consulta, infatti, anche se permangono alcune differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, i diritti fondamentali – tra cui viene annoverato quello al lavoro e alla giusta retribuzione nel contesto di un’impresa familiare – devono essere riconosciuti senza distinzioni a coniuge, componente dell’unione civile e convivente di fatto.
Pur restando ferme le differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, quando si tratta di diritti fondamentali, questi devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni.
Tra questi rientra il diritto al lavoro e ad una giusta retribuzione, diritto che nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale tutela.
All’ampliamento della tutela prevista dall’art. 230-bis del Codice Civile al convivente di fatto è seguita l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter del Codice civile, che – nell’attribuire allo stesso una tutela ridotta, non comprensiva del riconoscimento del lavoro nella famiglia, del diritto al mantenimento, nonché dei diritti partecipativi nella gestione dell’impresa familiare – comporta un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione.

Nadia Lombardi
2025-04-30 21:46:54
Numero di risposte: 5
La posizione del convivente di fatto o more uxorio è stata solo parzialmente tutelata dalla legge Cirinnà, che definisce conviventi di fatto due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, prescindendo dalla circostanza che la coppia sia formata da persone di sesso diverso o dello stesso sesso.
La norma si limita ad attribuire al collaboratore convivente di fatto, che presta stabilmente la propria opera, una partecipazione agli utili dell’impresa familiare e ai beni con gli stessi acquistati oltre agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato.
Tra i diritti riconosciuti non sono ricompresi pertanto né il diritto al mantenimento, né il diritto di partecipare alle scelte dell’impresa, né il diritto di prelazione in caso di trasferimento dell’azienda o divisione ereditaria.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 148 del 25 luglio 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230 bis comma 3 in quanto non prevede, come familiare e collaboratore dell’impresa familiare, anche il convivente di fatto o more uxorio, dichiarando illegittimo, di conseguenza anche l’art. 230 ter sopra indicato, che attribuiva le tutele e i diritti previsti per il coniuge in maniera completa all’unito civilmente e in maniera parziale al convivente more uxorio.
Secondo la Corte Costituzionale, pertanto, la prestazione lavorativa del convivente more uxorio nell’impresa familiare dev’essere equiparata a quella del coniuge e dell’unito civilmente, godendo delle stesse tutele e degli stessi diritti, anche al fine di impedire che la stessa possa essere qualificata come prestazione a titolo gratuito non retribuita.

Pierina Villa
2025-04-30 21:46:04
Numero di risposte: 8
Fino ad oggi questi diritti non venivano completamente riconosciuti anche al convivente di facto che prestava attività lavorativa all’interno dell’impresa familiare.
Il Codice Civile, infatti, riconosceva al convivente impiegato nell’impresa familiare diritti molto più ristretti di quelli normalmente riconosciuti ai familiari.
La Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230 bis del Codice Civile nella parte in cui non qualifica come familiare – oltre al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo – anche il convivente di fatto e come impresa familiare quella in cui quest’ultimo collabora.
Consequenzialmente, la Corte ha dichiarato l’illegittimità anche dell’art. 230 ter del Codice Civile che, nel regolamentare le prestazioni di lavoro rese nell’ambito della famiglia di fatto, prevede per il convivente-lavoratore una tutela più ristretta rispetto a quella prevista per i familiari.
La Corte, dunque, riconosce piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto, ai quali deve essere garantita, in tema di impresa familiare, la stessa tutela riconosciuta al coniuge.
Negare queste possibilità ai conviventi significa affermare che il nostro Paese non ha ancora accettato la famiglia nelle sue declinazioni più recenti, purtroppo ancora connotate da un senso di disvalore non più ammissibile.

Egidio Palmieri
2025-04-30 20:43:12
Numero di risposte: 4
Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato.
Elementi costitutivi della fattispecie delineata dall’art. 230-ter del c.c. sono:
a) il rapporto di convivenza;
b) lo svolgimento stabile di prestazioni di lavoro;
c) l’esistenza di un’impresa cui risulti connessa la prestazione lavorativa.
Il riferimento alla “partecipazione agli utili dell’impresa familiare”, contenuto nello stesso articolo 230-ter cc, consente di estendere a tale fattispecie i principi generali che presiedono all’imputazione dei redditi prodotti dall’impresa familiare come regolati dall’articolo 5 del Tuir, e di attribuire, conseguentemente, il reddito spettante alla convivente di fatto, derivante dalla partecipazione agli utili dell’impresa dell’altro, in proporzione alla sua quota di partecipazione.

Folco Coppola
2025-04-30 20:42:44
Numero di risposte: 5
La Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-bis c.c., comma 3, nella parte in cui non qualifica come familiare - oltre al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo - anche il convivente di fatto e come impresa familiare quella in cui quest’ultimo collabora. La norma, infatti, introdotta dalla legge n. 76/2016, riconosceva una tutela meno intensa al convivente di fatto, non riconoscendogli il lavoro nella famiglia, il diritto al mantenimento, nonché i diritti partecipativi nella gestione dell'impresa familiare.
Secondo la Corte, infatti, questa disparità di disciplina fa sorgere una riduzione di tutela ingiustificata e discriminatoria.
La Corte Costituzionale si riferisce al diritto al lavoro e alla giusta retribuzione, di cui rispettivamente agli artt. 4 e 36 della Costituzione.
Vista l’importanza di tali diritti, essi devono essere tutelati anche nell’ambito dell'impresa familiare.
Infatti, secondo la Corte, anche la prestazione lavorativa del convivente more uxorio dev'essere tutelata, al fine di impedire che la stessa possa essere qualificata come prestazione a titolo gratuito.
La Consulta ha qualificato come irragionevole la mancata inclusione del convivente di fatto nell'impresa familiare.
Pertanto, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-ter c.c.
Conseguentemente, il convivente di fatto ha gli stessi diritti dei familiari nell'impresa familiare, ovvero il diritto al mantenimento, nonché i diritti partecipativi nella gestione dell'impresa familiare.

Demis Rinaldi
2025-04-30 19:55:32
Numero di risposte: 3
Le Sezioni unite civili della Corte di cassazione avevano sollevato questioni di legittimità costituzionale della disciplina dell’impresa familiare nella parte ove il convivente more uxorio non era incluso nel novero dei familiari.
La Consulta ha accolto le questioni rilevando che, nell’attuale società, vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa nazionale che della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto.
Restano le differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, ma quando rilevano diritti fondamentali, questi devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni, in particolare il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione, diritto che, per la Consulta, nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale tutela, versando pure il convivente di fatto, come il coniuge, nella stessa situazione ove la prestazione lavorativa deve essere protetta, rischiando altrimenti di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito.
La Corte ha ritenuto, per l’effetto, irragionevole la mancata inclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare.
All’estensione della tutela apprestata dall’art. 230-bis del codice civile al convivente di fatto è conseguita l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter del codice civile il quale, nell’attribuire al medesimo una tutela ridotta, non inclusiva del riconoscimento del lavoro nella famiglia, del diritto al mantenimento, e dei diritti partecipativi nella gestione dell’impresa familiare, comporta un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione.

Sue ellen Battaglia
2025-04-30 18:19:51
Numero di risposte: 4
La Consulta ha accolto le questioni rilevando che, in una società profondamente mutata, vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa nazionale, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto.
Tale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione; diritto che, nel contesto di un'impresa familiare, richiede uguale tutela, versando anche il convivente di fatto, come il coniuge, nella stessa situazione in cui la prestazione lavorativa deve essere protetta, rischiando altrimenti di essere inesorabilmente attratta nell'orbita del lavoro gratuito.
All'ampliamento della tutela apprestata dall'articolo 230-bis del codice civile al convivente di fatto è conseguita l'illegittimità costituzionale dell'articolo 230-ter del codice civile, che - nell'attribuire allo stesso una tutela ridotta, non comprensiva del riconoscimento del lavoro nella famiglia, del diritto al mantenimento, nonché dei diritti partecipativi nella gestione dell'impresa familiare - comporta un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione.
La Consulta ha infatti ricordato la disciplina dell'impresa familiare che, a differenza di quella dell'impresa coniugale - che riguarda in particolare il regime patrimoniale legale della comunione dei beni tra i coniugi – mira a tutelare il lavoro “familiare”, come “fattispecie intermedia tra il lavoro subordinato vero e proprio e quello gratuito, reso “affectionis vel benevolentiae causa”.
La difficoltà - scrivono i giudici - per il prestatore di provare la subordinazione in siffatto contesto finiva prevalentemente per attrarre la prestazione nella fattispecie del lavoro gratuito, privo di effettiva protezione.
La Consulta ha dunque sottolineato che anche il convivente more uxorio si trova nella stessa situazione in cui “l'affectio maritalis fa sbiadire l'assoggettamento al potere direttivo dell'imprenditore, tipico del lavoro subordinato, e la prestazione lavorativa rischia di essere inesorabilmente attratta nell'orbita del lavoro gratuito”.
Viene così meno così l'effettività della protezione del lavoro del convivente che, di fatto, non è diverso da quello del lavoro familiare prestato da chi è legato all'imprenditore da un rapporto di coniugio, parentela o affinità.
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